Ho l’immenso piacere di presentare, per la prima volta tradotto in italiano da Giovanni Costabile, un articolo firmato da una delle studiose di Tolkien più importanti al mondo, Verlyn Flieger. Americana, autrice e specialista in mitologia comparata con una specializzazione in J. R. R. Tolkien si è ritirata dall’insegnamento alla Univeristy of Maryland nel 2012, pur ricoprendo oggi il ruolo di Professor Emerita al Dipartimento di Inglese. Oggi insegna presso la Signum University. La Flieger è nota per i suoi meravigliosi contributi scritti su J. R. R. Tolkien come Splintered Light: Logos and Language in Tolkien's World (1983; edizione rivista, 2002) tradotto in Italia con il titolo Schegge di luce (Marietti 2007). Ha anche curato opere di Tolkien, come l’edizione estesa di Fabbro di Wootton Major di J. R. R. Tolkien (tr. it. Il fabbro di Wooton Major, Bompiani) , On Fairy-stories (2008) e le due opere “inedite“ The Story of Kullervo (tr. it. La storia di Kullervo, Bompiani) e, più recentemente, The Lay of Aotrou and Itroun.
Nel 2011, la Kent State University Press pubblica la raccolta Green Suns and Faërie: Essays on J. R. R. Tolkien, che si compone di saggi editi e inediti della Flieger. Il volume, diviso in tre parti, vede la prima parte Tolkien Sub-creator, aprirsi con il saggio Fantasy and Reality: J. R. R. Tolkien’s World and the Fairy-Story Essay, già pubblicato nella rivista Mythlore 22.3 (#85) del 1999 (pp. 4–13). Un saggio interessante, nel quale la Flieger analizza la narrativa tolkieniana partendo dal saggio Sulle fiabe, pubblicato per la prima volta nel 1947 nel volume collettaneo Essays Presented to Charles Williams, e il mondo secondario creato da Tolkien.
Prima di lasciarvi alla lettura di questo interessantissimo saggio, vorrei ringraziare l’autrice, Verlyn Flieger, e l’Assistant Director and Marketing Manager della Kent State University Press, Susan L. Cash, per aver autorizzato la traduzione e la pubblicazione su questo sito e Giovanni Costabile, per aver tradotto il saggio e curato i contatti con l’autrice. Si ricorda che è vietata la riproduzione del presente saggio.
Buona lettura
Oronzo Cilli
Fantasia e realtà:
Il mondo di J. R. R. Tolkien e il saggio Sulle fiabe [*]
di Verlyn Flieger
(traduzione di Giovanni Costabile)
(traduzione di Giovanni Costabile)
Nell’introdurre gli studenti all’opera di J. R. R. Tolkien, spesso solevo iniziare con una citazione dal suo saggio Sulle fiabe: “la fantasia dipende dalla realtà tanto quanto il non-senso dipende dal senso”. Ho sempre avuto la sensazione che si trattasse di un’osservazione particolarmente rilevante.
Non molto tempo fa, ho poi sfogliato il saggio per verificare la citazione, principalmente allo scopo di segnalare la pagina precisa agli studenti che volessero individuarla. Con mia grande sorpresa, sebbene sfogliassi pagina dopo pagina, non riuscivo a trovarla, e per un motivo piuttosto serio: non c’era. Quello che ho scoperto, con forte biasimo delle mie facoltà mnemoniche, era che la frase che andavo ripetendo con tanta sicurezza non era affatto quel che Tolkien aveva scritto, cioè qualcosa di molto più ricco e complesso di quanto la mia stringata frasetta gli riconoscesse merito:
Perchè la Fantasia creativa si fonda sul duro riconoscimento [1] che le cose sono proprio così nel mondo, quale esso appare alla luce del sole; su un riconoscimento del dato di fatto, ma non sul divenirne schiavi. Allo stesso modo il non-senso che fa bella mostra di sé nei racconti e nei versi di Lewis Carroll è fondato sulla logica. (Medioevo 213)
Ciò che questo serve a mostrare, e che avrei già dovuto sapere, è che non si può fare troppo affidamento sulla memoria, perché la differenza tra ciò che io pensavo Tolkien avesse detto e ciò che aveva effettivamente detto era piuttosto considerevole. Mentre i termini chiave – fantasia e non-senso – sono gli stessi, e allo stesso modo la struttura semantica – concetti apparentemente opposti che sono in realtà interdipendenti – la somiglianza finisce qui, perché il pensiero di Tolkien è più profondo e il suo linguaggio più preciso rispetto alla mia inadeguata versione stenografata.
Laddove nel descrivere Carroll ho impiegato la parola senso, una qualità del pensiero, Tolkien più correttamente e molto più precisamente ha adoperato logica, non una elusiva qualità ma un sistema di regole che governano le parole e le loro interrelazioni. Egli aveva osservato quanto fermamente fondati nella logica del linguaggio fossero sia i giochi di parole sia i significati letterali su cui si basa il fantastico di Carroll, quanto questi fossero dipendenti, per aver effetto, sullo stesso sistema che sembravano sfidare. Ed era egualmente acuto per quanto riguarda la fantasia. La frase che oppone ad essa, “la dura consapevolezza che le cose sono proprio così nel mondo” è più accuratamente descrittiva tanto quanto più psicologicamente penetrante della mia semplice parola realtà, termine piuttosto vago e generico. E, sebbene egli stesso poi muova a parlare di “realtà” nel suo saggio (è più facile ripetere una sola parola che un’intera frase), la parola da lui impiegata, riconoscimento, è la chiave dell’intera idea, dal momento che pone l’enfasi là dove va posta: sull’osservatore piuttosto che su qualcosa chiamata realtà, su cui può esserci e spesso si trova disaccordo. Riconoscimento riporta l’idea in casa del lettore. Non possiamo né comprendere né apprezzare una cosa che non riusciamo a riconoscere. Per quanto apparentemente aliena, per quanto disturbante appaia al pensiero, la fantasia, per essere riuscita, deve essere riconoscibile alla coscienza umana percettiva.
Non sto provando a definire la fantasia. Critici eccellenti come Tzvetan Todorov, Kathryn Hume, Harold Bloom, Darko Suvin ed Erik Rabkin hanno condotto questo tentativo fino a spingersi al di là del pensabile, ma senza avvicinarsi con ciò a una definizione che faccia più che supportare le loro stesse teorie. Tolkien, più saggiamente di molti, non ha tentato di definirla, ma nel saggio sulle fiabe ha esposto i principi della sua fantasia. Abbiamo tutti un buon livello di familiarità con i suoi termini programmatici – sub-creazione, mondo secondario, intima consistenza della realtà, ma è facile perdere traccia di quelle cose cui fungono da corrispettivo – creazione primaria, il mondo reale e la realtà esterna di cui la consistenza è il tratto distintivo. Nella sezione del saggio intitolata “Fantasia”, Tolkien punta al fondo del processo creativo, e la sua argomentazione resta la migliore descrizione che chiunque abbia mai fatto della propria arte. È il suo manifesto creativo.
Chiunque ... può parlare del sole verde ... Ma ... Creare un Mondo Secondario all’interno del quale il sole verde possa essere credibile, imponendo la Credenza Secondaria … richiederà ... una particolare abilità, una sorta di maestria elfica. (Medioevo 208)
È nel descrivere questa maestria elfica che propone un implicito paragone con Carroll, dal momento che dichiara inequivocabilmente che “La fantasia è un’attività razionale, non irrazionale” (Medioevo 207). Quest’affermazione potrebbe facilmente prestarsi a descrivere Lewis Carroll, che era un individuo sommamente razionale. Se non lo fosse stato, non avrebbe mai potuto concepire la fantasia razionale dei libri di Alice, la cui apparente irrazionalità è tanto fermamente fondata sulla logica sintattica e semantica. Ma Tolkien prosegue nel dire che “La fantasia è creata a partire dal Mondo Primario” (Medioevo 217) [2], e qui sta descrivendo il proprio operato. Dichiarò riguardo la sua stessa creazione che “La Terra di Mezzo non è un mondo immaginario” (Lettera n. 183) e affermò più direttamente che “La Terra di Mezzo è il nostro mondo” (Biografia 131). Disse anche (sebbene confessò potrebbe essere un termine migliore, dal momento che seppure la sua dichiarazione sia generica, è anche chiaramente personale):
Probabilmente ... ogni subcreatore desidera in qualche misura essere un vero creatore, o spera di tracciare un disegno sulla realtà: spera che la peculiare qualità di questo Mondo Secondario (anche se non in tutti i suoi particolari) siano derivati dalla Realtà.... La particolare qualità della “gioia” nella Fantasia ben riuscita può quindi essere spiegata come un improvviso rivolgere lo sguardo alla realtà, o verità, sottesa. (Medioevo 227)
Qui si trova il riconoscimento al quale si riferisce nella prima citazione, riconoscimento non solo che “le cose sono proprio così nel mondo”, ma anche che c’è una realtà o verità che sottostà a questo fatto. E se lo scrittore, il sub-creatore, è un artigiano onesto – e Tolkien sicuramente lo era – sarà a volte un “duro” riconoscimento, perché ci sono alcune realtà o verità sottostanti che non sempre ispirano gioia. E se il mondo secondario deve riflettere quello primario, le deve riconoscere.
Non solo la fantasia è creata a partire dal Mondo Primario, ma deve anche puntare il dito verso la sua fonte se vuole essere efficace. Cosa che richiede la stessa abilità e maestria elfica che Tolkien cita, dal momento che afferma anche che l’attrattiva del fantastico come genere è la sua “stranezza che attrae” (Medioevo 207). La fantasia ci permette di fuggire in un mondo che non è il nostro. Altrimenti non la chiameremmo fantasia. Desideriamo la fuga, che ovviamente implica la stranezza. È per questo che leggiamo il fantastico. La particolare abilità dello scrittore fantastico, specialmente nel creare un sub-creato Mondo Secondario, si manifesta nel condurre la fuga e al contempo mantenere il riconoscimento; la maestria risiede nell’ottenere e mantenere quel delicato equilibrio tra fantasia e realtà che ci condurrà alla sottostante verità. Nessuno lo fa meglio di Tolkien.
A dirla tutta, mi spingerei fino a dire che nessuno dopo Tolkien sia riuscito a farlo bene la metà.
Con la possibile eccezione dell’Arrakis di Frank Herbert, Terramare e Gethen e Anarres di Ursula Le-Guin, la Terra di mezzo di Tolkien surclassa ogni mondo sub-creato che lo ha seguito, e la maggior parte di quelli che lo hanno preceduto. Non solo devi essere capace di riconoscere la realtà prima di potersene distaccare nella fantasia, devi anche avere un senso piuttosto buono di quanto lontano puoi spingerti prima che il riconoscimento scompaia e non ci siano più punti di riferimento. Come dato di fatto, Tolkien non è mai andato troppo lontano, molto meno lontano di quanto si pensi rispetto ai mondi che la sua opera ha ispirato, la proliferazione di fantasie di Mondi Secondari, i giochi di ruolo, e i loro libri spin-off.
Non solo la fantasia è creata a partire dal Mondo Primario, ma deve anche puntare il dito verso la sua fonte se vuole essere efficace. Cosa che richiede la stessa abilità e maestria elfica che Tolkien cita, dal momento che afferma anche che l’attrattiva del fantastico come genere è la sua “stranezza che attrae” (Medioevo 207). La fantasia ci permette di fuggire in un mondo che non è il nostro. Altrimenti non la chiameremmo fantasia. Desideriamo la fuga, che ovviamente implica la stranezza. È per questo che leggiamo il fantastico. La particolare abilità dello scrittore fantastico, specialmente nel creare un sub-creato Mondo Secondario, si manifesta nel condurre la fuga e al contempo mantenere il riconoscimento; la maestria risiede nell’ottenere e mantenere quel delicato equilibrio tra fantasia e realtà che ci condurrà alla sottostante verità. Nessuno lo fa meglio di Tolkien.
A dirla tutta, mi spingerei fino a dire che nessuno dopo Tolkien sia riuscito a farlo bene la metà.
Con la possibile eccezione dell’Arrakis di Frank Herbert, Terramare e Gethen e Anarres di Ursula Le-Guin, la Terra di mezzo di Tolkien surclassa ogni mondo sub-creato che lo ha seguito, e la maggior parte di quelli che lo hanno preceduto. Non solo devi essere capace di riconoscere la realtà prima di potersene distaccare nella fantasia, devi anche avere un senso piuttosto buono di quanto lontano puoi spingerti prima che il riconoscimento scompaia e non ci siano più punti di riferimento. Come dato di fatto, Tolkien non è mai andato troppo lontano, molto meno lontano di quanto si pensi rispetto ai mondi che la sua opera ha ispirato, la proliferazione di fantasie di Mondi Secondari, i giochi di ruolo, e i loro libri spin-off.
Non è un’esagerazione dire che Il Signore degli Anelli sia la più importante e più influente fantasia del ventesimo secolo. Ma se esamini il libro da vicino, scoprirai che per essere una fantasia così potente contiene un numero sorprendentemente esiguo di elementi fantastici – molti meno, in verità, di quanti ve ne siano nella moltitudine di successive fantasie che il suo romanzo ha generato. C’è molto poco nella sua opera che non sia derivato dalla realtà o riarrangiato da materiale del Mondo Primario. Il fantastico di Tolkien è al tempo stesso attraente e potente non a causa della sua fantasia, ma della sua realtà, perché il suo mondo ci mostra che le cose stanno “così” nel nostro stesso mondo.
Mi propongo allora di esaminare il modo in cui Tolkien segue i suoi stessi principi, di osservare la sua fantasia nel contesto della sua realtà e rilevare le relative proporzioni di ciascuna. Mostrerò quanto non-fantastica sia la qualità del suo mondo, e quanto fondati nella realtà siano gli elementi di stranezza che attrae nel suo lavoro. C’è della pura fantasia, è ovvio. Ci sono aquile parlanti. C’è un Balrog. Ci sono Elfi, Orchi, Ent – creature che di certo non incontriamo nel Mondo Primario – e vediamo più di loro di quanto seguiamo le aquile o i Balrog. Ma con l’eccezione degli Ent (e persino loro distruggono Isengard agendo come alberi) l’aspetto fantastico di questi personaggi si trova marginalizzato alla periferia dell’azione. È largamente decorativo, e ha molto poco a che fare con lo svolgimento della storia.
Sotto questo aspetto, Il Signore degli Anelli è notevolmente carente in ciò che ogni buona opera di fantascienza propone – l’integrazione della scienza (o in questo caso la fantasia) nella trama. C’è un po’ di integrazione altrimenti non potremmo affatto definirlo un libro fantastico. Le aquile parlano e trasportano la gente, e compiono, due volte, un salvataggio fondamentale. Il Balrog è direttamente responsabile della morte e dunque la resurrezione di Gandalf. Ma su circa mille e cento pagine questo non è un grosso impiego di elementi fantastici. E d’altronde, fino a che punto la fantasia serve la trama? Gandalf ha il suo bastone, e può comandare il fuoco, ma nelle due occasioni in cui lo impiega, non aiuta molto. I lanciafiamme di Saruman riflettono quelli del nostro mondo, e questi,se si eccettua la sua tecnologia, non dà grande sfoggio di potere stregonesco. Lo Specchio di Galadriel può scorrere attraverso il tempo, ma la sua funzione è di riflettere l’azione, non di avere effetto su di essa. Di nuovo, in una storia tanto lunga, non sembra che ci sia molto.
Per carità, di sicuro semplicemente definire un individuo quale Elfo può invocare una qualità di “stranezza che attrae”. Ciò dunque soddisfa uno dei criteri di Tolkien. Ma che ne è dell’altro? Che ne è del riconoscimento? Quanto elfico è il comportamento degli Elfi di Tolkien? Non molto. Sono umani in maniera facilmente riconoscibile, in effetti super-umani in comportamento e aspetto. Ciò che è davvero strano negli Elfi della Terra di mezzo (e di Valinor, per quel che vale) è che abbiamo dei problemi a riconoscerli come elfi, perché si discostano radicalmente dalle convenzioni fiabesche che tradizionalmente governano la gente elfica. Non sono di statura minuta. Non sono pixie o corrigan o leprecauni o boggart. Non fanno amicizia con poveri terzi figli di taglialegna. Non riparano le scarpe, o riordinano la casa mentre dormi, o escono fuori di notte per danzare in anelli fatati, o rapiscono bimbi umani sostituendoli con i loro. Non hanno ali o bacchette. Possiamo invece vedere in loro un riflesso di noi stessi. Legolas fa a gara con Gimli sul numero di orchi che hanno ucciso, e dibatte con lui sulle relative bellezze di boschi e caverne. Lorien dispiega l’uso di tecnologia elfica, non magia elfica, come gli Elfi stessi si preoccupano di specificare quando Pipino glielo chiede. I mantelli elfici sono un travestimento efficace, ma non sono mantelli magici di invisibilità, e quando Aragorn, Legolas e Gimli (con i mantelli indosso) si alzano in piedi, i cavalieri di Rohan non hanno problemi a vederli. La corda elfica è robusta e resistente, ma per quanto ne sappiamo è semplicemente corda. La reazione di Gollum ad essa, “Gli elfi l’hanno fatta, maledetti!” (DT 343) e il suo dolore quando viene legato con essa sono più reazioni psicologiche che l’effetto di magia.
Per carità, di sicuro semplicemente definire un individuo quale Elfo può invocare una qualità di “stranezza che attrae”. Ciò dunque soddisfa uno dei criteri di Tolkien. Ma che ne è dell’altro? Che ne è del riconoscimento? Quanto elfico è il comportamento degli Elfi di Tolkien? Non molto. Sono umani in maniera facilmente riconoscibile, in effetti super-umani in comportamento e aspetto. Ciò che è davvero strano negli Elfi della Terra di mezzo (e di Valinor, per quel che vale) è che abbiamo dei problemi a riconoscerli come elfi, perché si discostano radicalmente dalle convenzioni fiabesche che tradizionalmente governano la gente elfica. Non sono di statura minuta. Non sono pixie o corrigan o leprecauni o boggart. Non fanno amicizia con poveri terzi figli di taglialegna. Non riparano le scarpe, o riordinano la casa mentre dormi, o escono fuori di notte per danzare in anelli fatati, o rapiscono bimbi umani sostituendoli con i loro. Non hanno ali o bacchette. Possiamo invece vedere in loro un riflesso di noi stessi. Legolas fa a gara con Gimli sul numero di orchi che hanno ucciso, e dibatte con lui sulle relative bellezze di boschi e caverne. Lorien dispiega l’uso di tecnologia elfica, non magia elfica, come gli Elfi stessi si preoccupano di specificare quando Pipino glielo chiede. I mantelli elfici sono un travestimento efficace, ma non sono mantelli magici di invisibilità, e quando Aragorn, Legolas e Gimli (con i mantelli indosso) si alzano in piedi, i cavalieri di Rohan non hanno problemi a vederli. La corda elfica è robusta e resistente, ma per quanto ne sappiamo è semplicemente corda. La reazione di Gollum ad essa, “Gli elfi l’hanno fatta, maledetti!” (DT 343) e il suo dolore quando viene legato con essa sono più reazioni psicologiche che l’effetto di magia.
La connessione con gli Elfi associa la corda alla luce, e il suo argenteo bagliore porta a Frodo luce nell’oscurità della tempesta, ma è degno di nota come Tolkien lasci questo fenomeno deliberatamente inesplicitato. Quando Sam lascia cadere la corda giù dalla roccia di fronte a Frodo, “L’oscurità sembrò levarsi dagli occhi di Frodo, oppure la sua vista stava ritornando. Poteva vedere la grigia linea mentre arrivava calando, e pensò che avesse un vago splendore argenteo” [3]. Da notare l’accurata lista di possibilità. O l’oscurità “sembrò” sollevarsi, “oppure” la sua vista stava ritornando, come accade quando gli occhi si abituano al buio. La corda gli offre un punto su cui focalizzarsi, e il suo stordimento si placa. Questi sono tutti fenomeni naturalmente occorrenti ad un corpo, ma i lettori possono leggervi al posto di luce la Luce, la messa a fuoco come fede, come e quanto e se vogliono. La corda in sè si comporta come una corda, e la domanda finale se si sleghi da sola dopo che Frodo e Sam l’hanno impiegata per discendere la rupe è deliberatamente lasciata senza risposta.
Similarmente, il pane elfico, il pan di via, si comporta come un pane. Un morso terrà un viaggiatore “sulle sue gambe per una giornata di lunga fatica” [4], come gli Elfi assicurano a Gimli. Questo è ciò che il pane dovrebbe fare. È nutriente e sostanzioso. È il bastone cui appoggiarsi. Nondimeno, Sam e Frodo lo trovano piuttosto leggero per una dieta seria, e non soddisfa quanto lo stufato di coniglio. La reazione di Gollum al pane elfico, come alla corda elfica, è più psicologica che magica. Lo ha incontrato prima, quando era prigioniero degli Elfi, e il ricordo ancora lo tormenta. Non riesce a mangiarlo, tossisce e gli va di traverso, e lo sputa fuori. Ma sappiamo il tipo di cibo che Gollum preferisce. “Vermi o scarafaggi o qualcosa di viscido fuoriuscito dalle buche” [5], come Sam ipotizza, e il pensiero della dieta di Gollum fa soffocare e sputacchiare Sam. Di nuovo, siamo liberi di trarre da ciò le conseguenze che vogliamo. L’autore ha fornito una spiegazione naturale perfettamente ragionevole per il disgusto di Gollum. Coloro che vorranno potranno vedere nel pan di via un riferimento alla Via, ma l’autore usa le minuscole e lascia l’interpretazione alle inclinazioni individuali. Mentre la narrazione si sviluppa, sia la corda sia il pane senza dubbio assumono valore metaforico, ma la metafora è nella mente del lettore.
Chiamare qualcuno un Orco certamente invoca la “stranezza che attrae”, dal momento che pochi lettori sono (o erano prima di Tolkien) a conoscenza di questa parola [6]. Il primo nome che Tolkien usò per la loro razza era “goblin”, e sono molto più vicini ai goblin della letteratura di quanto lo siano i suoi Elfi ai loro omonimi delle fiabe. Ma uno sguardo più da vicino rivela che anche gli Orchi sono riconoscibilmente umani, e molto poco agiscono in maniera tale da collocarsi al di fuori del campo del comportamento umano. Come ovunque fanno i soldati, marciano, si lamentano, battibeccano, si insubordinano, combattono tra loro. Oltre a ciò sbraitano e assassinano e tradiscono, e, sebbene questo non sia tipico comportamento militare, resta comunque chiaramente riconoscibile come comportamento. Il cibo orchesco è semplice carne accompagnata da una bevanda (sebbene la carne sia possibilmente umana e la bevanda – descritta come “liquido bruciante” – sia probabilmente alcolica), ma se si escludono le implicazioni cannibalistiche queste caratteristiche sono ancora meno fantastiche del pane elfico. In realtà, le implicazioni cannibalistiche rinforzano, sebbene in negativo, la somiglianza degli Orchi con la natura umana, non la loro estraneità da essa. Gli Orchi sono certamente brutti, ma mentre il loro aspetto può essere visto come una metafora esteriore per una condizione interiore, ciò non costituisce una caratteristica fantastica più di quanto lo faccia la bellezza elfica. Vediamo i nostri sé ideali riflessi negli Elfi. Vediamo la nostra ombra, ciò che non ammettiamo, il lato peggiore del carattere umano nel deprecabile ma tristemente umano comportamento degli Orchi. E siamo costretti a riconoscerlo.
Ma che dire degli hobbit? Sono interamente frutto dell’inventiva di Tolkien, non derivando da nessuna tradizione letteraria stabilita, e si stagliano come la sua creazione che più coglie nel segno, che più dura. Essi hanno fatto aggiungere una nuova parola all’Oxford English Dictionary e un nuovo folklore alla letteratura per bambini. Ma quanto sono fantastici? Quanto si distaccano in natura, carattere e anche aspetto rispetto al Mondo Primario? Sono umani dalla taglia dimezzata. Il Mondo Primario è pieno di gente piccola. Hanno grande appetito e piedi pelosi. Ma queste sono caratteristiche di tanta gente che noi tutti conosciamo. Vivono in buchi scavati nel terreno, ma quei buchi sono spaziosi, comodamente arredati, “reali” tanto quanto qualsiasi abitazione del mondo reale. La seconda riga de Lo hobbit scaccia la fantasia fuori dai buchi hobbit, e il secondo paragrafo li collega fermamente al mondo reale e riconoscibile per mezzo di pomelli di porte, muri rivestiti di pannelli, piastrelle, tappeti, camere da letto, bagni, cantine, dispense, armadi, cucine e sale da pranzo. Hobbiville è modellata su un villaggio rurale inglese pre-industriale come quello dove Tolkien passò gli anni più felici della sua infanzia. Agli hobbit piace ricevere regali, e hanno una tendenza ad accumulare oggetti. Quando ne accumulano più di quanto abbiano spazio per disporli, mettono le cianfrusaglie che avanzano in un museo.
Tutti gli attributi hobbit che ho citati e altri ancora sono riconoscibili come aspetti dell’essere umano. La ragione per cui non ci piace Ted Sabbioso e amiamo Sam Gamgee e sviluppiamo un risentito rispetto per Lobelia Sackville-Baggins, la ragione per cui ammiriamo Merry e sviluppiamo un esasperato affetto per Pipino, e la tragedia di Frodo ci spezza il cuore, non è perché siano hobbit, ma perché li riconosciamo come esseri umani. Ted Sabbioso è qualsiasi scettico derisore, privo di immaginazione, che si prende gioco dei racconti strani. Ho passato gran parte della mia vita a discutere con Ted Sabbioso. Il romanticismo di Sam, il suo senso comune, la sua devozione al pentolame, la sua lealtà e spirito di sacrificio sono tra le migliori e più allettanti tra le caratteristiche umane. Lobelia è qualsiasi vecchia signora impicciona e ficcanaso che mai abbia trionfato sulle avversità per mezzo di un totale caratteraccio. La matura affidabilità di Merry e l’adolescenziale impulsività, curiosità e bocca larga di Pipino, non solo sono tratti umani riconoscibili, ma sono anche tratti tipici.
Di talismani fatati la storia ne ha notevolmente pochi – solo due, infatti. Ma nessuno dei due, suggerisco, risulta pienamente fantastico. Il più mistico artefatto che compare nell’intreccio è la Fiala di Galadriel, ma nessun lettore, mi spingo a indovinare, ascriverebbe la sua luce alla magia, perché la Fiala trascende la fantasia per diventare mito nel miglior senso di questa parola. È un oggetto il cui significato è maggiore della somma delle sue parti. Non si fonda nella realtà ma in ciò che per Tolkien era la Verità, e come tale offre precisamente quella “visione della sottostante realtà o verità” che affermava la fantasia riuscita dovesse portare. All’interno della vicenda è sia un nesso alla storia passata, la luce del Silmaril di Eärendil, sia un collegamento al futuro quando i tre gioielli saranno recuperati. Al di là della storia è una metafora della speranza, e in questo rispetto la sua luce deve essere vista come ad un tempo letterale e simbolica. È sia una luce sia la Luce, e come tale è il riferimento più simbolico che si possa trovare nell’intera storia. Ma, per questa stessa ragione, non figurerà come fantasia.
Chiuderò con un esame del più indubitabilmente magico, più prominente oggetto dell’intera storia, l’elemento fantastico che dà il nome all’intera opera – l’Anello. Ma quanto magico, quanto fantastico è tale artefatto? Suggerisco che sia più fantastico ne Lo hobbit che ne Il Signore degli Anelli, e che mentre quest’ultima opera si sviluppava, le sue proprietà magiche arrivavano man mano a recedere al di qua delle sue significazioni metaforiche e psicologiche. Riconosco la sua più ovvia funzione magica, la capacità di far sparire le persone. Questa non è riconoscibile in quanto tale in questo mondo ed è incontestabilmente contraria alla realtà che conosciamo. Ma, mentre la storia procede, questa facoltà diventa sempre meno l’astuto congegno di invisibilità de Lo hobbit e sempre più la metafora di uno stato psicologico, e infine di una disastrosa erosione dell’essere morale e spirituale e una perversione della volontà, di cui dirò più tra un momento.
La perversione della volonta, però, è in realtà una funzione secondaria dell’Anello. La sua funzione primaria, quella intorno a cui ruota l’intera storia, è di comandare obbedienza. Qui, ancora, l’aperta evidenza del fantastico sembra stranamente carente. L’unica vera cosa fantastica che l’Anello vien detto esser capace di fare – conferire il potere assoluto, essere una super-arma, comandare gli eserciti e influenzare le guerre – è proprio ciò che non vediamo l’Anello fare tranne nel momento in cui non può più farlo. Vale a dire, quando è distrutto e i Nazgul sono risucchiati nella corrente di ritorno della sua caduta. È una misura del genio di Tolkien il fatto che ci abbia convinto del potere dell’Anello senza mai mostrarlo. Il cardine su cui l’intera storia fa perno è l’elemento al contempo più e meno fantastico in essa. Osserviamolo. È un comune anello d’oro il cui potere non è mai dimostrato in maniera conclusiva. Tolkien stesso ha detto:
La perversione della volonta, però, è in realtà una funzione secondaria dell’Anello. La sua funzione primaria, quella intorno a cui ruota l’intera storia, è di comandare obbedienza. Qui, ancora, l’aperta evidenza del fantastico sembra stranamente carente. L’unica vera cosa fantastica che l’Anello vien detto esser capace di fare – conferire il potere assoluto, essere una super-arma, comandare gli eserciti e influenzare le guerre – è proprio ciò che non vediamo l’Anello fare tranne nel momento in cui non può più farlo. Vale a dire, quando è distrutto e i Nazgul sono risucchiati nella corrente di ritorno della sua caduta. È una misura del genio di Tolkien il fatto che ci abbia convinto del potere dell’Anello senza mai mostrarlo. Il cardine su cui l’intera storia fa perno è l’elemento al contempo più e meno fantastico in essa. Osserviamolo. È un comune anello d’oro il cui potere non è mai dimostrato in maniera conclusiva. Tolkien stesso ha detto:
Non si può pretendere troppo dall’Unico Anello, perché naturalmente è solo un elemento mitico … L’Anello di Sauron è solo uno dei vari espedienti mitici, per concentrare la vita o il potere in qualche oggetto, suscettibile quindi di venir preso o distrutto con risultati disastrosi per chi gli ha trasferito il suo potere. (Lettera n. 211)
Quanto viene invece mostrato del reale potere dell’Anello è la reazione dei personaggi ad esso. Bilbo mente per conservarne il possesso, e non può liberamente rinunciarvi. Gandalf lo teme, Galadriel è tentata da esso, Boromir ne viene corrotto (come Denethor che non lo ha neanche mai visto), Grishnakh lo desidera, e Saruman per esso perde la sua saggezza e la sua posizione come capo del Bianco Consiglio. Vediamo tutte queste manifestazioni, e le facciamo far capo all’Anello. Siamo noi, non Tolkien, a conferire potere all’Anello, e lui è stato abbastanza saggio da sapere che lo avremmo fatto, e da lasciarcelo fare.
La più estrema operazione dell’Anello è il terrificante effetto che ha su Frodo – l’erosione della sua volontà man mano che è condotto sempre più e più a farne uso, finché alla fine perde il suo stesso sé. In nessun luogo in maniera più ovvia che qui l’aggettivo di Tolkien “duro” nella sua espressione “duro riconoscimento” diviene descrizione operativa. La trasformazione di Frodo non è solo dura da osservare, è insopportabile. È anche più insopportabile da riconoscere, eppure è impossibile negare che cose come questa accadano nel mondo, che ciò che accade a lui non solo potrebbe capitare a chiunque, ma che infatti capiti – in qualsiasi momento. Succede quando le persone cadono vittime dei loro appetiti e rinunciano alla loro umanità per seguire i propri desideri. Capita quando i soldati ritornano dalla guerra, o quando i bambini subiscono abusi, o quando qualcuno viene danneggiato da una catastrofe. Il disturbo da stress post-traumatico non è prerogativa esclusiva degli hobbit.
Quindi quanto fantastico è l’Anello? Lo è difficilmente del tutto; è la vera e propria incarnazione della realtà, per come la realtà incide sulle persone in ogni momento – quando sono affette dal potere, dall’ingordigia, dall’invidia, dalla violenza, dallo shock, da gravi ferite nella mente e nel corpo. È Tolkien che ci costringe al “duro riconoscimento che le cose stanno proprio così nel mondo”.
L’Anello, allora, non è tanto un artefatto fantastico del Mondo Secondario di Tolkien quanto un riferimento diretto al Mondo Primario, un segnale che punta verso e sta per un’ineludibile, sottostante realtà o verità, un duro riconoscimento della condizione umana. Sotto questo aspetto, l’Anello è una sineddoche, la parte che sta per il tutto. Come l’Anello sta all’umanità, così il mondo fantastico di Tolkien sta al nostro Primario – fondato in questo, stabilito in questo, e inerente a questo.
Note
[*] Fantasy and Reality: J. R. R. Tolkien’s World and the Fairy-story Essay from Green Suns and Faërie: Essays on J. R. R. Tolkien, published by The Kent State University Press, 2012. Reprinted by permission of the publisher.
[1] La traduzione italiana citata ha qui “consapevolezza”, mentre poco dopo mantiene “riconoscimento”. In inglese entrambe le parole rendono un unico termine, “recognition”, così abbiamo uniformato anche per esigenze di corrispondenza con la conclusione del saggio che torna a fare riferimento a questo passo (n.d.t.)
[2] Traduzione dall’inglese del curatore. Nella versione italiana pubblicata da Bompiani la frase “Fantasy is made out of the Primary World” (Monsters 147) è stata tradotta “La Fantasia è distinta dal Mondo Primario” (Medioevo 217).
[3] Traduzione dall’inglese del curatore. Nella versione italiana pubblicata da Bompiani la frase: “The darkness seemed to lift from Frodo's eyes, or else his sight was returning. He could see the grey line as it came dangling down, and he thought it had a faint silver sheen” (TT 214) è stata tradotta “Ne lanciò un capo a Frodo. A questi parve che l’oscurità si diradasse, o che la vista gli stesse ritornando. Vide scendere dondolando la grigia linea, e gli parve che irradiasse un bagliore argenteo” (DT 329).
[4] Traduzione dall’inglese del curatore. Nella versione italiana pubblicata da Bompiani la frase: “On will keep a traveller on his feet a day of long labour” (FOTR 386) è stata tradotta “Uno solo di essi basta a sostentare un viaggiatore per un’intera giornata di faticoso cammino” (CA 611).
[5] Traduzione dall’inglese del curatore. Nella versione italiana pubblicata da Bompiani la frase: “«Worms or beetles or something slimy out of holes»” (TT 232) è stata tradotta “«Vermi o scarafaggi o qualche altra cosa viscida nascosta nei buchi»” (DT 354).
[6] L’autrice si riferisce all’impiego da parte di Tolkien della forma Orc in luogo della più nota (almeno a quei tempi) Ogre (n.d.t.)
Abbreviazioni e bibliografia
Biografia: CARPENTER, Humphrey. J. R. R. Tolkien. La Biografia. Roma: Fanucci, 2002.
CA: TOLKIEN, J. R. R. La Compagnia dell’Anello. Milano: Bompiani, 2012.
DT: TOLKIEN, J. R. R. Le due torri. Milano: Bompiani, 2012.
FOTR: TOLKIEN, J. R. R. The Fellowship of the Ring. London: Allen and Unwin, 1967.
Lettera: CARPENTER, Humphrey. La realtà in trasparenza. Lettere. Milano: Bompiani, 2001.
Medioevo: TOLKIEN, Christopher (a cura di). Il medioevo e il fantastico. Milano: Bompiani, 2013.
Monsters: TOLKIEN, Christopher (a cura di). The monsters and the Critics and Other Essays. Londra: Allen and Unwin, 1983.
TT: TOLKIEN, J. R. R. The Two Towers. London: Allen and Unwin, 1967.
L’autrice
VERLYN FLIEGER, Ph.D., è un’autrice e specialista in mitologia comparata con una specializzazione in J. R. R. Tolkien. Si è ritirata dall’insegnamento alla Univeristy of Maryland nel 2012, pur ricoprendo oggi il ruolo di Professor Emerita al Dipartimento di Inglese. Insegna in corsi di mitologia comparata, letteratura medievale e opere di J. R. R. Tolkien. La Flieger possiede un M.A. (1972) e Ph.D. (1977) dalla Catholic University of America ed è stata associata alla University of Maryland dal 1976. Nel 2012, ha iniziato a insegnare presso la Signum University. Ha pubblicato Splintered Light: Logos and Language in Tolkien's World (1983; edizione rivista, 2002) tradotto in Italia con il titolo Schegge di luce (Marietti 2007); Interrupted Music: The Making of Tolkien's Mythology; Tolkien's Legendarium: Essays on The History of Middle-earth che ha co-editato con Carl Hostetter; La 'edizione estesa' di Fabbro di Wootton Major di J. R. R. Tolkien (tr. it. Il fabbro di Wooton Major, Bompiani); Tolkien On Fairy-Stories con Douglas A. Anderson; Green Suns and Faërie: Essays on J. R. R. Tolkien; inoltre ha curato il racconto di Tolkien The Story of Kullervo (tr. it. La storia di Kullervo, Bompiani) e, più recentemente, il poema dello stesso autore The Lay of Aotrou and Itroun. Ha vinto per tre volte il Mythopoeic Scholarship Award for Inkling Studies: nel 1988 con A Question of Time: J. R. R. Tolkien’s Road to Faërie; nel 2002 con Tolkien's Legendarium: Essays on the History of Middle-earth (co-autore Carl Hostetter) e infine nel 2013 con Green Suns and Faërie: Essays on J. R. R. Tolkien. Con Douglas A. Anderson e Michael D.C. Drout, è co-redattrice di Tolkien Studies: An Annual Scholarly Review. Vistate il suo sito internet QUI.
Il traduttore
Giovanni Carmine Costabile (Dott. Mag.) nasce a Cosenza nel 1987. Di formazione classica, studia Filosofia all’Università di Pisa e all’Università della Calabria, conseguendo la laurea magistrale. Detentore del certificato di inglese avanzato IELTS Academic, trae grande beneficio dalla frequentazione dei docenti della SSLMIT di Forlì, dove segue alcuni corsi di traduzione inglese. Insegnante privato, traduttore, scrittore di racconti e poesie, ha visto recentemente pubblicata la sua raccolta di poesie Lingue di te (Aletti, 2017), risultato che gli ha permesso l'inserimento nella Enciclopedia dei Poeti Contemporanei ancora di Aletti Editore. Membro della Tolkien Society dal 2015, ama viaggiare specialmente nel Regno Unito e in Irlanda, dove lavora per un periodo come assistente artistico. Ha presentato un suo lavoro di ricerca al Tolkien Seminar 2016 di Leeds. I suoi lavori su Tolkien e la letteratura medievale includono articoli, saggi e note pubblicati o in corso di pubblicazione in Italia, Inghilterra, Germania e Stati Uniti. Da segnalare un suo contributo nella prestigiosa rivista Tolkien Studies.